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Monday, 29 April 2024
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              La metodologia di Ratisbona

 

Dopo aver considerato la lectio magistralis di Regensburg sotto l’aspetto dell’impatto mediatico che ha avuto in quanto aperta e inopportuna provocazione nei confronti dell’islam, esaminiamo il suo contenuto speculativo, iniziando a considerare la metodologia seguita da chi, in virtù di una lunga e brillante – pur se ormai remota - esperienza accademica, dovrebbe considerarsi maestro in interventi di questo genere. 


Il Logos giovanneo e la ragione 

Benedetto XVI poggia tutta la sua argomentazione sul presupposto di una perfetta coincidenza semantica tra il termine logos che tanta parte ebbe nello sviluppo del pensiero greco e il Logos che nell’incipit del quarto vangelo, designando un’ipostasi divina, starebbe a indicare, a detta del Pontefice, l’intima essenza razionale del Dio cristiano.
Scrive il Papa:
 
Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era il λόγος". È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista.
 
Pur riservandoci di esaminare più da vicino nel capitolo seguente la questione del significato del termine usato da Giovanni (‘ragione’ e/o ‘parola’?), possiamo già dire che questa affermazione di Benedetto XVI è in ogni caso da considerare quanto meno ardita: non solo egli attribuisce a lógos entrambi i valori di ‘parola’ e ‘ragione’, ma dà addirittura la preminenza al secondo, parlando di “ragione che è creatrice”.
Per di più, Ratzinger non esita a fare del versetto di Giovanni una consapevole asserzione filosofica con cui l’evangelista a suo dire suggellerebbe nientemeno che un plurisecolare percorso di convergenza tra pensiero greco e rivelazione giudaica: “Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi”.
 
Una simile affermazione andrebbe considerata con attenzione e rispetto qualora costituisse una tesi originale illustrata con acribia; ma è gravemente scorretto assumerla come pacifica (mentre è quanto mai discutibile, per non dire azzardata) e su questa fragilissima base costruire poi tutto il castello dell’argomentazione.
Ogni discorso argomentativo deve infatti muovere da ciò che è noto: in termini logici, diremo che un sillogismo può portare a una conclusione vera solo se parte da premesse vere. “Vere” qui significa ‘pacificamente accettate’, o almeno ‘largamente condivise’. Resta comunque il fatto che quanto minore è il consenso sulle premesse poste a base dell’argomentazione, tanto meno accettabili appariranno le conclusioni.
 
Qui occorrerebbe dunque dimostrare preliminarmente la fondatezza di una tesi tanto impegnativa quale è quella da cui parte il Papa; o almeno mostrarsi consapevoli della sua “novità” e della sua conseguente opinabilità. Invece non troviamo neppure una nota che menzioni un solo autore chiamato a confortare l’opinione di chi scrive.
Di più: Ratzinger “dimentica” di dire che dopo il prologo il termine logos, “preso in senso personale e senza determinazioni” (Léon-Dufour), non ricompare più, non solo in Giovanni, ma neppure in tutto il Nuovo Testamento. E non accenna neppure al carattere particolarissimo del quarto vangelo, che, avendo comunque una “filosofia” assai singolare (proprio per il prologo si è parlato addirittura di impostazione e derivazione gnostica, formulando anche l’ipotesi che si tratti di un testo preesistente, proveniente dalla cerchia del Battista), mal si presta a costituire un riferimento esemplare circa l’uso di un termine tanto pregnante e ricco di storia quale è logos.
 
Può essere utile anche segnalare che il Papa, leggendo in tutt’altra occasione l’incipit del quarto vangelo, ha dato del termine Logos una definizione completamente diversa:
Quel che Giovanni chiama in greco “ho logos” – tradotto in latino “Verbum” e in italiano “il Verbo” - significa anche “il Senso”. Quindi potremmo intendere l’espressione di Giovanni così: il “Senso eterno” del mondo si è fatto tangibile ai nostri sensi e alla nostra intelligenza: ora possiamo toccarlo e contemplarlo (cfr 1Gv 1,1). Il “Senso” che si è fatto carne non è semplicemente un’idea generale insita nel mondo; è una “Parola” rivolta a noi. Il Logos ci conosce, ci chiama, ci guida. Non è una legge universale, in seno alla quale noi svolgiamo poi qualche ruolo, ma è una Persona che si interessa di ogni singola persona: è il Figlio del Dio vivo, che si è fatto uomo a Betlemme.
Qui dunque il Logos è “il Senso”, è una “Parola”, è una “Persona”: stranamente, in questo ventaglio di significati manca proprio quello di “Ragione”, che nella lectio di Regensburg viene invece presentato senza discussioni come preminente su ogni altro. Il motivo è evidente: in questo caso (omelia prenatalizia del 17.12.08) il Papa intende fare tutt’altro discorso, puntando ad esaltare non la razionalità divina, ma l’infinita bontà del Dio che arriva, proprio in modo all’apparenza irragionevole, a farsi “umile "infante" per vincere la nostra superbia”.
È chiara quindi la cura di adottare in ciascuna occorrenza l’esegesi che di volta in volta meglio serve allo scopo del momento. Ne vedremo tra poco un altro clamoroso esempio.
 
Sempre a livello metodologico, va poi osservato che è scorretto pure basare tutta l’argomentazione sull’uso di una medesima parola (lógos) fatto in due testi distanti tra loro la bellezza di 13 secoli.
Se si pensa quanto complessa e delicata è in genere la questione della variazione diacronica del rapporto tra significante e significato (ossia quel che costituisce l’oggetto della cosiddetta “semantica storica”), si comprende immediatamente che oltremodo complessa e delicata sarà nel nostro caso. Siamo infatti in un ambito - quello del discorso filosofico - che è al tempo stesso e altamente specialistico e puramente concettuale, del tutto privo cioè di referenti materiali tali da consentire riscontri univoci e oggettivi.
 
Per di più, il Papa ha completamente trascurato la circostanza che anche la struttura sintattica in cui compare il termine in questione è diversa nei due casi: sintagma nominale in funzione di soggetto (di regola scritto con l’iniziale maiuscola!) nel testo di Giovanni, sintagma preposizionale con valore avverbiale nelle parole dell’imperatore bizantino.
Appare comunque chiaro che in quest’ultimo caso logos corrisponde approssimativamente al nostro “ragionevolezza”, piuttosto che a “ragione”, come meglio dimostreremo analizzando il testo a livello filosofico.
 
 
Il logos e il pensiero greco
 
Ma la deroga più clamorosa alla probità intellettuale che deve sempre caratterizzare un lavoro che si vorrebbe presentare come “scientifico” - o comunque di livello accademico - la troviamo nella sorprendente omissione di un dato biblico largamente conosciuto, la cui considerazione nel contesto della lectio sarebbe stata per così dire d’obbligo.
Per sostenere la sua tesi della sostanziale sintonia tra la Weltanschauung greca - nutrita di logos - e quella cristiana, Il Papa cita la visione avuta da Paolo che in sogno si sentì supplicare da un Macedone con queste parole: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (At 16, 6-10). “Questa visione”, commenta Ratzinger, “può essere interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco” (corsivo nostro).
 
Incredibile. Il pontefice adduce una testimonianza che di per sé dice poco o nulla circa i rapporti tra la cultura greca e lo spirito del cristianesimo nascente (intriso di razionalità, a detta dell’autore). Si tratta infatti non di un evento reale, ma di un’esperienza puramente soggettiva (una visione avuta in sogno), di cui per di più è protagonista, accanto a Paolo, uno sconosciuto e generico “macedone”.
E mentre cita At 16, Benedetto XVI finge di dimenticare che, sempre negli “Atti dgli Apostoli”, al capitolo seguente, figura invece un episodio di gran lunga più significativo per il discorso che egli sta facendo: l’incontro (un evento reale, quindi, non un sogno) che lo stesso Paolo ha con persone assai più qualificate dell’anonimo macedone a rappresentare il pensiero greco. Si tratta dello scambio di idee tra l’apostolo ed alcuni esponenti delle due maggiori scuole filosofiche del tempo, la stoica e l’epicurea; incontro avvenuto nella sede dell’Areopago, che ospitava dibattiti fra quelli che oggi definiremmo intellettuali. 
 
Orbene, quando Paolo - dopo aver suscitato interesse parlando dell’unico Dio, ignoto agli Ateniesi, creatore e signore del cielo e della terra – passa al kérygma, ossia all’annuncio del Cristo morto e risorto, incontra la reazione ostile della maggioranza dell’uditorio: “Alcuni lo deridevano, altri dissero: "su questo ti sentiremo un’altra volta"” (At 17, 32). Il che non significa altro se non che degli autentici rappresentanti del pensiero greco del tempo respingono il cuore dell’annuncio cristiano avvertendolo come irrazionale, e quindi profondamente difforme dalla tradizione culturale ellenica.
 
Si potrebbe anche arrivare a scorgere nella reazione negativa all’annuncio paolino il rifiuto della religione rivelata in quanto tale, percepita come concezione semitica estranea a tutta la grande speculazione greca.
Si potrebbe cioè dire che è vacuo strologare circa il ruolo della “ragione” nella filosofia greca (ragione che, si precisa, era capace di indagare anche la realtà metafisica, e non solo il mondo materiale). Bisognerebbe infatti chiedersi come avrebbero reagito Socrate, Platone e Aristotele se si fossero trovati di fronte alla novità rappresentata dal giudaismo e poi dal cristianesimo, ossia di fronte alle pretese di una religione appunto rivelata, portatrice di una verità su Dio e l’aldilà comunicata direttamente dal sedicente Dio (e per di più presentata come assolutamente vincolante).
I filosofi greci si confrontavano con una religione per definizione mitologica, considerata cioè prodotta dagli uomini (come già aveva insegnato Senofane), non rivelata da Dio stesso.
 
Ma a noi qui basta rilevare che è inammissibile la mancata menzione dell’episodio dell’Areopago da parte del pontefice, il quale avrebbe dovuto quanto meno ricordarlo dandone una valutazione, quale che sia la sua opinione in proposito. ll silenzio non è soluzione degna di un vero studioso; di uno studioso, per di più, che instancabilmente proclama di essere alla ricerca e al servizio della verità.
Naturalmente, se tale silenzio non si può in alcun modo giustificare, è però facile intuirne i motivi: lo smacco di Paolo ad Atene viene taciuto perché dimostra esattamente l’opposto di quello che il Papa vorrebbe dimostrare.
 
Gerhard Schneider, nel suo commento agli “Atti” (vol. II, p. 306) afferma che “il soggiorno di Paolo ad Atene, con il noto discorso all’Areopago, rappresenta un vertice degli Atti degli Apostoli. Paolo qui, nella metropoli della vita culturale della Grecia, è messo a confronto con la cultura e la filosofia greca.”
E Rudolf Pesch, a p. 668 del proprio commento, arriva a scrivere che quello di Paolo è “il discorso (forse) più esaminato e discusso della letteratura mondiale” (sic).
 
D’altra parte, se qualcuno, per salvare la buona fede del Papa, volesse pensare che egli, a causa di un’affrettata lettura degli “Atti degli Apostoli”, ignori l’episodio dell’Areopago, siamo lieti di poterlo smentire. Nella catechesi settimanale del 29 ottobre 2008 Benedetto XVI infatti ci ha raccontato proprio dell’infelice esito del discorso di Paolo all’Areopago, riportando perfino le precise parole con cui venne irriso l’annuncio dell’apostolo.
Come mai tanta diversità di comportamento? Anche qui la risposta è semplice: in quell’occasione premeva al papa enfatizzare proprio l’irrazionalità della logica della Croce, quella logica che era moría, ossia stoltezza, per i greci e i pagani in genere (su questo aspetto della logica cristiana torniamo nel capitolo dedicato alla teologia di Ratisbona).
Bibbia à la carte, insomma: quando un passo fa comodo lo si esibisce, quando suonerebbe smentita al discorso che si sta facendo lo si fa sparire.
 Come exploit accademico, dunque, diremmo che veramente non c’è male. Il silenzio del Papa sull’episodio dell’Areopago (silenzio che è vera e propria censura) non va considerato inammissibile solo in una lectio magistralis: lo sarebbe anche in un lavoro scritto per ottenere quella che un tempo si chiamava “libera docenza”.
 

Da quanto si è detto fin qui, si può dunque già concludere che siamo di fronte a un complesso di comportamenti tutt’altro che irreprensibili – o addirittura decisamente censurabili - sotto il profilo del rigore intellettuale; quel rigore che in genere viene invece acriticamente accreditato a Joseph Ratzinger in virtù dello straordinario carisma di cui gode come teologo e come pensatore.

 

 

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